La carriera di Andrea Arnold, presentatrice inglese poi reinventata regista, è stata senz’altro discontinua: iniziata tardivamente, con il suo terzo cortometraggio Wasp, ottiene un premio Oscar, per poi esordire al lungometraggio a 45 anni, approcciandosi spesso e volentieri alla serialità televisiva nei suoi più di due decenni di attività, mettendosi dietro la macchina da presa di prodotti di successo come Transparent e Big Little Lies.
Anche con i suoi progetti apparentemente più distanti dai fulcri tematici della sua filmografia, come ad esempio il più recente documentario Cow (2021), l’autrice è sempre stata interessata a raccontare episodi di vita di umanità lasciate in disparte, spesso relegate ai bordi della società, in condizioni sfavorevoli, che influenzano indelebilmente le psicologie dei suoi protagonisti.
Se con American Honey, anche questo in concorso a Cannes, il focus geografico si era spostato verso un viaggio on the road lungo gli Stati Uniti, Bird rappresenta un ritorno ai luoghi periferici britannici, tra Londra e Glasgow, oltre che un ritorno alla “comfort zone” della fiction, dopo la già citata parentesi documentaristica.
La storia segue Bailey (Nykiya Adams), dodicenne costretta a crescere più in fretta del dovuto. Tra i conflitti suscitati da una doppia situazione familiare, disastrata su entrambi i fronti, entrerà in contatto con Bird (Franz Rogowski), un individuo di provenienza misteriosa, ma che con la sua bontà e genuinità riesce a instaurare un rapporto di sana amicizia con la ragazzina.
La Arnold con Bird riprende un inseguimento al cinema del reale, ibridandolo con la finzione, fin dalle scelte di casting. Attori all’esordio sul grande schermo, come la stessa Nykiya Adams, si incontrano e interagiscono con star sull’attuale cresta dell’onda, dal già citato Rogowski fino a Barry Keoghan nei panni di Bug, affettuoso e goffo padre della protagonista.
Entrambi gli interpreti regalano due performance centrate, confermando la bravura dei due nomi in questione, come la grande capacità della regista di scolpire con fattezze inedite star stigmatizzate in un determinato stereotipo. Le fisicità austere e non convenzionali dei due attori, che spesso li hanno portati a ruoli negativi o borderline, si ritrovano qui a diventare esempi positivi, dolcissimi e gioiosi freaks che sgomitano in mezzo alla palude di precarietà in cui sguazzano.
Nel modellare corpi nuovi e corpi abituati al grande schermo, Andrea Arnold adotta anche dal punto di vista formale un approccio tendente al naturalistico, usufruendo frequentemente della macchina a mano, ma implementandolo coi linguaggi dei nuovi media. Le riprese affidate al cellulare di Bailey sono molteplici e incrementano la vicinanza al realismo dell’opera. Una scelta consapevole e azzeccata, che dimostra un’attenzione della Arnold verso l’operato di autori più giovani (l’Harmony Korine pre Aggro Drift in particolare), quanto la realizzazione dello status dello smartphone come strumento di ripresa democratico del nuovo millennio.
Il coraggio di Bird non si ferma sul piano stilistico, presentando durante il secondo tempo più di un’incursione nel fantastico, addentrandosi quasi nel territorio della fiaba o, ancora più appropriato, in quello del realismo magico. Seppure questi momenti risultino stranianti anche per loro resa visiva povera, ma dimostrandosi coerenti con le palesate intenzioni successive del film.
Bird rappresenta per la propria regista un passo indietro sotto mentite spoglie, un piccolo ritorno al passato solamente di facciata, che cela invece una grande ambizione nell’affacciarsi a una materia estranea al suo cinema, dando vita a un’operazione per la quale è impossibile non intenerirsi.