Comandante: il ferro lo affondiamo, l’uomo lo salviamo. La recensione del film con Pierfrancesco Favino

All’inizio della Seconda guerra mondiale Salvatore Todaro comanda il sommergibile Cappellini della Regia Marina. Nell’ottobre del 1940, mentre naviga in Atlantico, nel buio della notte affronta un mercantile armato che viaggia a luci spente e lo affonda a colpi di cannone. Ed è a questo punto che il Comandante prende una decisione destinata a fare la storia: salvare i 26 naufraghi belgi, condannati altrimenti ad affogare in mezzo all’oceano, per sbarcarli nel porto sicuro più vicino, come previsto dalla legge del mare. Per accoglierli a bordo è costretto a navigare in emersione per tre giorni, rendendosi visibile alle forze nemiche e mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei suoi uomini.

Comandante, il film di Edoardo De Angelis con protagonista Pierfrancesco Favino che ha aperto l’80esima Mostra del cinema di Venezia, è uno sforzo produttivo considerevole per il cinema italiano: 15 milioni di euro di budget che sono serviti anche a ricreare in ogni dettaglio e a grandezza naturale il sommergibile Cappellini, lungo 73 metri per 70 tonnellate di acciaio, riportato in vita a partire dai progetti trovati nell’Ufficio Storico della Marina Militare (la sua realizzazione, in collaborazione con Cinecittà, ha coinvolto più di 100 professionisti fra ingegneri, costruttori e artigiani).

Edoardo De Angelis, che firma la sceneggiatura con lo scrittore Sandro Veronesi, ha costruito intorno alla figura storica di Todaro uno spaccato biografico sui generis, relegando sullo sfondo le vicende familiari e concentrandosi stoicamente sull’operato dell’uomo, guidato da una ferrea e inflessibile disciplina militare ma anche da un’umanità a tratti deflagrante, pronta a sfociare anche nelle piccole situazioni e nelle minuzie trascurabili, nelle quali meno ci si aspetterebbe di vederla chiamata in causa. 

Rispetto ai modelli americani del classico film con sottomarini, Comandante sceglie una strada diversa, meno spettacolare e più intimista, più impervia e carica di sfumature morali sottili e impalpabili. È un film estremamente popolare ma che decide consapevolmente di lavorare, anche esteticamente, sui chiaroscuri e le zone d’ombra. E così facendo arriva, pian piano e con passo calmo, funereo e disteso, a comporre un film paradossalmente corale in cui i vari sottoposti del protagonista sono pennellate di colore nient’affatto trascurabili in un affresco disperato, sul quale aleggia costantemente il peso incombente della morte, sempre all’orizzonte nel destino dei militari chiamati a servire il proprio paese.

Non è fortunatamente un film ideologicamente schierato, Comandante, anche se non c’è dubbio che la figura di Todaro si presti a quasi tutti i livelli a poter essere piegata a forzature di questo tipo, che trascendono il ritratto d’epoca e tentano malamente di strizzare l’occhio alla contemporaneità e all’attualità. Il copione, per quanto marcatamente letterario, è estremamente misurato, al servizio di una regia impostata ma mai anonima né anodina. Anche l’impronta dannunziana del protagonista, inequivocabile, è relegata al prologo e all’epilogo che incorniciano il film, mentre per tutto il resto del tempo a contare maggiormente sono la fatica dell’uomo, il tormento della disciplina, la contraddizione lacerante tra il senso del dovere di un “funzionario bellico” e la pietas verso i suoi compagni di battaglia ma anche per i nemici superstiti (per accoglierli a bordo, Todaro fu costretto a navigare in emersione per tre giorni, rendendosi visibile alle forze nemiche e mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei suoi uomini).

Comandante si apre con una citazione in esergo che rimanda al conflitto russo-ucraino e in cui si parla della distanza da Dio che accomuna tutti coloro che rischiano la vita in guerra, ovvero “quella di un braccio”, che può salvare (o giustiziare) un uomo condannato a fine certa dall’ineluttabile destino cui va incontro. Tale simbolico sussulto di umanità guida, idealmente, tutta l’operazione, che sarebbe troppo facile e anche ingeneroso ricondurre a un nazionalismo di facciata partendo magari dalla frase finale di Todaro “Perché siamo italiani”: risposta, incredibile ma vera (nonché principale appiglio e specchietto per allodole per le telefonate letture nazionaliste più superficiali), che lui stesso diede al capitano del Kabalo, al momento dello sbarco nella baia di Santa Maria delle Azzorre, quando gli fu chiesto perché si fosse avventurato – nonché ovviamente “imbarcato” – in quella missione di salvezza sulla carta suicida. 

Al contrario, l’italianità raccontata da Comandante è, parafrasando una battuta del film, un crogiolo meraviglioso e putrido: un “bordello” (Todaro dixit…) di popoli, dialetti e culture giustapposti, dove un livornese e un siciliano possono anche essere divisi da sensibilità radicalmente opposte; ma è proprio tale ingovernabilità a determinare un vastissimo melting pot da sondare ed esplorare in tutte le sue sfumature e contraddizioni, dalle più umane alle più meschine, italiani-pizza-e-mandolino che scoprono per le prima volta le patatine fritte alla belga (!) compresi. Un popolo di santi, navigatori e poeti, senza dubbio, ma tutt’altro che riassumibile solo attraverso queste categorie, proprio come Todaro non si può ridurre soltanto a fascista pur aderendo totalmente all’ideologia “patria e famiglia” (alla seconda antepose senz’altro la prima, ma ciò non gli impedì comunque di mettere il rispetto delle regole del mare davanti la patria: quanti oggi, della sua stessa aria di pensiero, possono dire lo stesso?).

L’interpretazione di Favino regge, come spesso accade a questo sempre più smaliziato e titanico attore di punta del cinema dello Stivale, l’intero film, con una misura che trova una notevole sporcizia e una durezza nello smozzicato accento veneto richiesto (il chioggiotto, per la precisione). Si ha la sensazione che la lingua, dalla cadenza aspra e monotona, in questa sua prova più che in altre, sia un abito da farsi calzare addosso con una feroce sottrazione; una spinta a evitare qualsiasi birignao, a osservare la scena e ad accarezzarne la cupissima claustrofobia, oltre che ad abitarla con un corpo fatto di cicatrici, ferite e sudore. Più rozze, invece, ma probabilmente per ragioni di budget e disabitudine al genere del nostro sistema-cinema, le sequenze con effetti digitali che hanno permesso di ricreare le scene di combattimento e di eliminare lo sfondo del porto di Taranto, dove si sono tenute le riprese in mare.

Foto: Indigo Film/Rai Cinema

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Fonte: Film: trame e trailer - Best Movie
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