Ferrari, un Saturno che divora i suoi figli. La recensione del film di Michael Mann con Adam Driver nei panni di Enzo

È l’estate del 1957. Dietro lo spettacolo della Formula 1, l’ex pilota Enzo Ferrari (Adam Driver) è in crisi. Il fallimento incombe sull’azienda che lui e sua moglie Laura (Penélope Cruz) hanno costruito da zero dieci anni prima. Il loro matrimonio si incrina con la perdita del loro unico figlio Dino. Ferrari lotta per riconoscerne un altro, avuto con Lina Lardi (Shailene Woodley). Nel frattempo la passione dei suoi piloti per la vittoria li spinge al limite quando si lanciano nella pericolosa corsa che attraversa tutta l’Italia: la Mille Miglia.

Ferrari, che segna il ritorno alla regia di Michael Mann dopo otto lunghi anni successivi al flop dell’incompreso e anti-commerciale Blackhat, è un progetto che il regista di Miami Vice e Collateral ha cullato da circa un decennio a questa parte, mettendo mano in un primo momento alla sceneggiatura con Troy Kennedy-Martin, scomparso nel 2009, per poi rimaneggiarla nel corso degli anni. A un certo punto sembrava che fossero maturi i tempi per vedere Christian Bale nei panni del fondatore della Ferrari, ma l’attore premio Oscar abbandonò il progetto per motivi personali e affaticamenti vari che l’avevano profondamente segnato nei suoi anni di continue altalene fisiche per prepararsi ai ruoli.

La versione definitiva del progetto (per il quale fu considerato anche Hugh Jackman), che ha visto finalmente la luce in Concorso all’80esima Mostra del cinema di Venezia nel settembre 2023, ha invece per protagonista Adam Driver, interprete sempre più affaccendato negli ultimi anni a fare sia da divo che da fixer per tanti progetti con personaggi non certo agevoli e alla portata di tutti i divi hollywoodiani (una specie di camaleonte buono per tutte le stagioni, da Carax a Gilliam passando per la nuova trilogia di Star Wars). Il film è tratto dalla biografia Enzo Ferrari – The Man and the Machine, scritta da Brock Yates, e si sofferma su un periodo particolarmente doloroso della vita del celeberrimo imprenditore e pilota italiano, evitando la via del biopic “dalla culla alla tomba” ma spremendo il più possibile il dramma attraverso un arco temporale più ristretto, di soli quattro mesi. 

L’effetto somiglia un po’ a un ibrido tra l’House of Gucci di Ridley Scott, in cui Driver interpretava un altro grande personaggio della storia italiana del XX secolo, Maurizio Gucci, e la libertà sregolata e fosca del Pasolini apocrifo di Abel Ferrara, con quell’ovvio e programmatico effetto di straniamento che si ha nel momento in cui attori internazionali si ritrovano a recitare ruoli di italiani senza alcuna mimesi vocale sensata, preferendo un accento inglese sporcato alla bell’e meglio di italiano anziché un accento inglese vero e proprio. Anche se, in questo caso, la cura della confezione e l’attenzione alla ricostruzione d’epoca è decisamente meno kitsch e più solida, per quanto comunque illustrativa. 

A riscattare Ferrari ci pensa però il touch di un grande regista come Michael Mann, autore spesso incline a una forma di romanticismo che ingloba dentro di sé un’idea fantasmatica e sfuggente di sentimento e desiderio. In Ferrari, Mann, che non risparmia al personaggio ambiguità, responsabilità accertate e contraddizioni morali, lavora in chiave meno filosofica che in passato, meno anti-spettacolare, soffermandosi spesso più del necessario sui volti dei protagonisti per coglierne un mistero e un incanto che sopravviva anche oltre il protrarsi – ostinato, mai insistito – di un primo piano o di una scelta espressiva dolorosamente calibrata. 

Ciò che ne viene fuori è uno strano e singolare ibrido culturale in cui è però proprio questa perizia tecnica a fare la differenza e a traghettare molto spesso Ferrari oltre il semplice mestiere. Un’abilità che, nel caso delle auto che sfrecciano, si avvale di punti macchina, camera car e riprese aeree straordinariamente cinematografiche e capaci, e al contempo, lascia trasparire un sapore di antica e sapiente artigianalità, che manderà probabilmente in visibilio gli amanti delle corse d’epoca e quanti amano vedere saettare le automobili sul grande schermo nella maniera più ruspante e meno posticcia possibile. 

Il resto è un intreccio mélo e shakespeariano, con tante ombre e pochissime luci, in cui Enzo Ferrari, specie in relazione alla drammatica morte del figlio Dino, viene caricato di una componente psicologica quasi cimiteriale, che va oltre l’elaborazione del lutto per abbracciare l’immagine simbolica, mitologica e, parlando di Ferrari, inevitabilmente industriale del Saturno che divora i suoi figli, riferimento artistico che il film stesso scomoda citando l’omonimo dipinto di Francisco Goya. Nel cast, più del protagonista Driver, brilla una Penélope Cruz che ritrova più che in parte il pathos da musa almodovariana, oscillando tra il camp matriarcale e sprezzante (quello sì, un po’ alla Patrizia Reggiani) e il calore drammatico a lei caro di una Sophia Loren o di un’Anna Magnani di un tempo, mutatis mutandis. 

Ferrari poster

Foto: 01 Distribution

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Fonte: Film: trame e trailer - Best Movie
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