The Politician, la prima serie di Ryan Murphy su Netflix – La recensione

Durante la scorsa primavera, poco prima dell’esordio su FX della splendida Pose, è stata diffusa la notizia che Ryan Murphy aveva firmato un accordo in esclusiva con Netflix, piattaforma per cui si impegnava a realizzare serie originali per cinque anni in cambio dell’incredibile cifra di trecento milioni di dollari.

Mai uno showrunner ha ricevuto un ingaggio così elevato e Netflix investendo così tanto su Ryan Murphy, gay dichiarato e da sempre impegnato nella lotta contro le discriminazioni di genere e razziali, fa una scelta non soltanto produttiva ma anche di posizionamento politico.

Sono tanti progetti annunciati, alcuni ancora a livello di concept altri già in produzione come Ratched (riscrittura di Qualcuno volò sul nido del cuculo ma dal punto di vista dell’infermiera), ma il primo show a venire fuori dalla partnership tra l’azienda di Los Gatos e l’autore di American Horror Story è The Politician, su Netflix dal 27 settembre.

Al timone della serie ci sono Ryan Murphy, Brad Falchuk (al suo fianco già in tante altre produzioni) e Ian Brennan (già tra i creatori di Glee), i quali hanno modellato uno show dalla struttura narrativa abbastanza peculiare, dell’estetica decisamente riconoscibile e dotata di uno sguardo sul mondo spiccatamente progressista, in particolare per quanto riguarda le questioni di genere e razziali.

La capacità di The Politician su leggere il proprio tempo con una sensibilità evoluta ed emancipata è figlia anche della diversity alla regia: in linea con le regole che Half (fondazione di Murphy nata con l’obiettivo di tutelare le opportunità lavorative delle persone appartenenti a categorie marginalizzate) si è data, più del 50% degli episodi sono diretti da persone di sesso femminile, di colore o appartenenti alla comunità LGBT.

Al centro del racconto c’è una storia ambientata prevalentemente nella ricca contea di Santa Barbara e fatta di ambizione, fuga dall’oppressione familiare, conoscenza di se stessi e del mondo in cui ci si muove. Il protagonista è Payton (interpretato in maniera eccellente dalla star di Broadway Ben Platt), un ragazzo ricco, intelligente, estremamente dotato e da sempre convinto di essere destinato a diventare Presidente degli Stati Uniti d’America.

Murphy, Falchuk e Brennan costruiscono attorno a Payton una costellazione di personaggi molto interessanti, che spesso partono da stereotipi ma che con l’andare avanti della serie mostrano ciascuno una propria stratificazione. Rimanendo nel contesto scolastico, c’è il team con cui il protagonista tenta di essere eletto nel consiglio studentesco, composto dagli esperti di politica McAfee (Laura Dreyfuss) e James (quest’ultimo dall’identità di genere fluida e interpretato dall’attore trans Theo Germaine) e dalla fidanzata Alice; e il gruppo di “rivali” che conta il bellissimo River (David Corenswet), la sua fidanzata Astrid (Lucy Boynton) e l’attivista black e gender non-binary Skye (Rahne Jones).
Leggermente di lato vi è una divertentissima storyline con al centro Infinity (Zoey Deutch), Dusty (Jessica Lange) e Ricardo (Benjamin Barrett) che costituisce una sorta di parodia del famoso caso di cronaca che quest’anno è stato trasposto in tv grazie alla serie true crime The Act, molto noto negli Stati Uniti e con cui gli autori giocano con grande consapevolezza.

Nel raccontare storie Ryan Murphy è un autore che di solito procede per accumulo, che conosce così bene i processi di produzione e narrazione televisiva da sapere che, differentemente dal cinema e dalla letteratura, con la serialità è possibile spostarsi con agio e velocità su più fronti, adottando così diverse tipologie di racconto e presentando più punti di vista in modo da esaltare la pluralità del medium. Ciononostante, guardando The Politician si percepisce l’attenzione a non perdere mai il controllo, a tenere in equilibrio tutti i livelli del racconto in modo persino rigoroso, anche a costo di “raffreddare” l’atmosfera e rischiare di minare l’empatia nei confronti dei personaggi.
Se sul piano narrativo uno dei principali riferimenti è Election di Alexander Payne, su quello formale gli autori guardano al cinema di Wes Anderson (e a Rushmore in particolare) esibendo una maniacale simmetria nella messa in quadro e una scrupolosa attenzione alla caratterizzazione di ogni minimo dettaglio.

A proposito di differenze tra il racconto televisivo e gli altri, è molto interessante soffermarsi sulla struttura narrativa di The Politician: gli otto episodi che compongono la prima stagione sono molto diversi dal classico “film diviso in parti”, modello che va per la maggiore nella cosiddetta TV di qualità. La serie, infatti, è composta da un primo blocco di quattro episodi che introduce i personaggi e le loro relazioni, costruisce il contesto in cui si muovono e sviluppa i principali temi; poi c’è un episodio che presenta un’inedita prospettiva sulla storia, leggermente scollato dal resto e più breve degli altri; a ciò segue un episodio doppio, soluzione un tempo tipica del serialità televisiva ma  purtroppo un po’ passata di moda oggi; e infine c’è un season finale che oltre a riacciuffare tutte le linee narrative è anche una ripartenza radicale, una sorta di reboot interno che mette le basi per la seconda annata. 

Alla luce di ciò è abbastanza comprensibile che qualcuno sia rimasto un po’ spaesato dalla seconda parte della stagione, perché dopo una prima metà caratterizzata da un incedere tradizionale gli autori cambiano rotta e decidono di esaltare lo specifico televisivo in tutte le sue forme, ribellandosi al concetto secondo cui le serie TV devono essere raccontati come dei film allungati. Tra i tanti vantaggi di questa scelta c’è il quinto episodio, “The Voter”, un vero e proprio gioiello che in soli ventotto minuti regala un punto di vista sul rapporto tra politica ed elettore esilarante quanto spietato.

The Politician è una serie che parla di ambizione (è una delle parole più pronunciate), di rapporti familiari (bellissimo quello tra Payton e la madre, interpretata da una splendida Gwyneth Paltrow) e del piacere di fare bene il proprio lavoro, figurando come un discorso sul professionismo (e sull’amore per la politica) meno tossico, più divertente ma altrettanto efficace di quello da sempre portato avanti da Aaron Sorkin.

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Fonte: Bestserial – Best Movie
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