Dogman: ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane. La recensione del film di Luc Besson

Che cosa può succede nella testa, nel cuore e nell’anima di un bambino rinchiuso dal padre in una gabbia assieme a dei cani? È la straziante premessa dietro a Dogman, film con il quale Luc Besson è sbarcato per la prima volta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e ispirato ad un triste fatto di cronaca francese che il regista ha letto su un giornale.

La storia di Douglas, interpretato da un magnifico Caleb Landry Jones (Get Out, Tre Manifesti a Ebbing Missouri), parte per la verità dalla fine e dal suo arresto, per poi procedere a ritroso sfruttando come artificio narrativo il colloquio che lo stesso ha con una psichiatra che lo visita in cella. In lui ci sono una calma ed una gentilezza così glaciali da renderlo allo stesso tempo tremendamente inquietante e affascinante, ma ora sta a lei ricomporre i pezzi di quel misterioso puzzle.

Quello che si sa per certo sin dall’inizio è che a Douglas piacciono i cani, ma soprattutto che ai cani piace Douglas. «Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane» recita la frase del poeta Alphonse de Lamartine usata in apertura, che racchiude perfettamente tutti gli elementi centrali in Dogman. Cani, infelicità e la prenseza-assenza di Dio nella vita del protagonista, vittima di un padre violento fino a quando proprio grazie ad uno dei suoi compagni di gabbia riesce a liberarsi.

Reso però storpio e forse irrimediabilmente spezzato nell’animo, la vita di Douglas va avanti con difficoltà e con la convinzione che i cani siano creature molto più affini a lui dei suoi simili, un assunto difficile da contestare, considerando la sua storia personale. Douglas sfrutta il suo legame con i tanti animali che riesce a salvare per portare avanti una sua personale visione della giustizia, un antieroe non dissimile da quello interpretato da Jean Reno nel più celebre titolo del regista francese, Léon.

Il film che condivide più aspetti immediati con questa nuova opera però è un altro, peraltro trionfatore proprio a Venezia solo pochi anni fa: Dogman è il Joker di Luc Besson, per la maniera in cui guida lo spettatore nella distorta e sofferente morale di una persona passata attraverso le pene dell’inferno. A interessarlo è l’aspetto psicologico che scaturisce da quel tipo di orrore (venire rinchiuso in una gabbia dal proprio padre) e capire dove si può trovare l’amore necessario per guarire e ricomporsi.

Besson stuzzica sicuramente l’empatia del pubblico, lo porta dalla parte del suo personaggio attraendolo magneticamente al suo racconto, ma al contempo lo appiattisce con sottotrame che sfilacciano Dogman e ne depotenziano l’impatto finale. Soprattutto la fine del secondo atto è in tono minore, persa in intrecci simil thriller esposti in chiave decisamente pop e lontana da quel climax drammaturgico col quale Todd Philipps si è aggiudicato il Leone d’Oro e Joaquin Phoenix un Oscar come Miglior attore protagonista.

Un peccato, perché cinefilia e cinofilia a parte, Dogman finora è il film che meglio è riuscito a coniugare l’anima commerciale e quella autoriale in questi primissimi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia. Resta il valore di una storia sofferta per la quale è impossibile non provare qualcosa e la proverbiale idea generalmente populista che sì, i cani sono meglio di certe persone.

Foto: Virginie Besson-Silla

Fonte: Film: trame e trailer - Best Movie
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